In questi giorni bui a causa della guerra in Ucraina, rattristati dalle immagini di distruzione, morte e fuga che arrivano anche dentro le nostre case, ritorno alla fotografia, per me da incorniciare, che arriva dalle ultime Olimpiadi invernali di Pechino. Il russo Ilia Burov, medaglia di bronzo, e l’ucraino Oleksandr Abramenko, vincitore della medaglia d’argento, che si abbracciano al termine della finale di freestyle. Avvolto nella bandiera gialloblu della sua nazione ha commentato: “Quando vinci sei in una tale euforia che i tuoi veri sentimenti si manifestano per quello che realmente sono. Mostri chi sei veramente. Va bene quando ti congratuli e abbracci i tuoi compagni di gara. E non mi interessa di che nazionalità siano”. Un piccolo segno che si può ancora sperare. L’augurio che fare un passo indietro è ancora possibile. Un’immagine silenziosa che irrompe con forza nel tuonare dei cannoni e delle armi. Quell’abbraccio è l’immagine della bellezza rivoluzionaria della felicità. Due atleti, due avversari, due nemici per la geopolitica, ma due olimpionici che nel momento della gioia più intensa non hanno avuto vergogna di stringersi l’uno con l’altro, incuranti delle telecamere e del mondo attonito che li guardava. Si sono abbracciati come due amici, come due fratelli gemelli, che molto hanno vissuto, molto hanno sofferto, che hanno condiviso un sogno e hanno faticato tanto per trasformarlo in realtà. Quell’abbraccio ha urlato al mondo la grandezza della fratellanza che non consente sospetti, prove di forza, annientamento. Nella forza di quelle mani che stringevano le spalle dell’altro c’era il riconoscimento e l’accoglienza che ogni fraternità richiede. Un cercarsi per dimostrare di volersi bene, nonostante tutto. Le mani sono fatte anche per impugnare le armi e premere con forza il grilletto, per scatenare una battaglia alla ricerca della vittoria. Queste non sono mani che stringono, distruggono. Con le armi si distrugge e basta! La guerra, ogni guerra, non ha altra morale che quella di fare male, in qualsiasi modo, pur di fiaccare il nemico e farlo cadere nella disperazione.
Dalle Olimpiadi ecco il messaggio: si può convivere anche non facendo la guerra; si può essere diversi senza per questo doversi volere male a tutti i costi. La Bibbia ci insegna che la fraternità non è un semplice dato genetico ma una conquista, non un punto di partenza ma un punto di arrivo: fratelli non si nasce ma si può diventare. Questo richiede una lotta ma non contro l’altro per sopravvivere, perché potrebbe togliermi la vita, bensì una lotta con se stessi per imparare a convivere, a renderci disponibili a “vivere con l’altro” e alla “presenza dell’altro”.
Fonte: È possibile convivere anche senza fare la guerra”, il punto dell’assistente ecclesiastico nazionale #CSI, don Alessio Albertini su Avvenire di oggi. Leggilo qui https://www.csi-net.it/…/e_possibile_convivere_anche…